I fari del furgone fendono l'ultimo alito blu della notte prima del sorgere del sole. La strada da Tripoli a Zuwarah, un tempo agile arteria tra la capitale, che fu prima roccaforte della pirateria araba e successivamente capitale di improbabili imperi coloniali, ed uno dei porti libici più importanti, si dispiega oggi in un tracciato disordinato e singhiozzante, tra larghe curve e biforcazioni volte ad evitare i crateri lasciati sull'asfalto dai mortai governativi e dalle bombe dell'aviazione francese nella recente guerra civile. Lunghe deviazioni servirebbero per evitare i cento posti di blocco che puntellano questo tratto, tenuti indistintamente dalle forze di polizia o dalle milizie armate, accomunati, nella loro funzione usurpatrice, dal desiderio di saccheggio ed intimidazione. Il vecchio furgone su cui viaggia Adil li attraversa come una lama calda nel burro: i poliziotti, veri o falsi che siano, sanno chi guida, e sanno che avranno la loro parte. I sedili posteriori, perso ogni ricordo del tessuto sintetico che li ricopriva, sono ora materassini di spugna friabile e mangiucchiata, intrisi del sudore e del nervosimo di centinaia di migranti che l'hanno preceduto. Adil è stretto su di questi insieme ad altre quattro persone, cinque col bambino di pochi mesi che la grossa signora eritrea porta con se; durante le tre ore di viaggio, nel buio del deserto e della paura, non ha fatto altro che contare i dossi e le buche, pregare un qualsiasi dio in cui non crede perché non incontrassero mine, e controllare e ricontrollare i soldi, duecento euro in banconote da venti, cuciti nel risvolto della maglietta da calcio che indossa. I primi edifici scheletrici della città portuale, ed i rari cartelli che indicano il porto, lungo la martoriata litoranea, gli annunciano l'arrivo a quella che sapeva essere la destinazione ultima del suo soggiorno in Libia, nonostante avesse cercato di dissimularlo, all'arrivo all'aeroporto di Tripoli, quando un'orda di tassisti abusivi gli si era offerta per il trasporto fino a Zuwarah, indotti, dal suo aspetto e dal loro ostentato razzismo, che non vi fosse altra meta per un marocchino se non quel porto.
sabato 22 marzo 2014
IL TAJINE DI FES
I fari del furgone fendono l'ultimo alito blu della notte prima del sorgere del sole. La strada da Tripoli a Zuwarah, un tempo agile arteria tra la capitale, che fu prima roccaforte della pirateria araba e successivamente capitale di improbabili imperi coloniali, ed uno dei porti libici più importanti, si dispiega oggi in un tracciato disordinato e singhiozzante, tra larghe curve e biforcazioni volte ad evitare i crateri lasciati sull'asfalto dai mortai governativi e dalle bombe dell'aviazione francese nella recente guerra civile. Lunghe deviazioni servirebbero per evitare i cento posti di blocco che puntellano questo tratto, tenuti indistintamente dalle forze di polizia o dalle milizie armate, accomunati, nella loro funzione usurpatrice, dal desiderio di saccheggio ed intimidazione. Il vecchio furgone su cui viaggia Adil li attraversa come una lama calda nel burro: i poliziotti, veri o falsi che siano, sanno chi guida, e sanno che avranno la loro parte. I sedili posteriori, perso ogni ricordo del tessuto sintetico che li ricopriva, sono ora materassini di spugna friabile e mangiucchiata, intrisi del sudore e del nervosimo di centinaia di migranti che l'hanno preceduto. Adil è stretto su di questi insieme ad altre quattro persone, cinque col bambino di pochi mesi che la grossa signora eritrea porta con se; durante le tre ore di viaggio, nel buio del deserto e della paura, non ha fatto altro che contare i dossi e le buche, pregare un qualsiasi dio in cui non crede perché non incontrassero mine, e controllare e ricontrollare i soldi, duecento euro in banconote da venti, cuciti nel risvolto della maglietta da calcio che indossa. I primi edifici scheletrici della città portuale, ed i rari cartelli che indicano il porto, lungo la martoriata litoranea, gli annunciano l'arrivo a quella che sapeva essere la destinazione ultima del suo soggiorno in Libia, nonostante avesse cercato di dissimularlo, all'arrivo all'aeroporto di Tripoli, quando un'orda di tassisti abusivi gli si era offerta per il trasporto fino a Zuwarah, indotti, dal suo aspetto e dal loro ostentato razzismo, che non vi fosse altra meta per un marocchino se non quel porto.
giovedì 20 febbraio 2014
LE TORTAS DE ACEITE DI GARCIA LORCA
"Il fiume Guadalquivir scorre fra aranci e ulivi/I due fiumi di Granada scendono dalla neve al grano."
Il Mediterraneo spessa penetra nella terra, risale i fiumi imponendo e caratterizzando coi suoi valori lo spazio interno del continente. I suoi odori risalgono, lungo e contro la corrente, fin quasi ai piedi delle montagne, e le piante che lo accompagnano palesano, in questi contesti, le loro caratteristiche e la loro origine. Piante trapiantate da altrove, come aranci e limoni, scompaiono presto, il cappero perde mano mano volume e forma, del mirto e del profumo del finocchio rimane a volte solo il ricordo; le erbe, invece, lo accompagnano fino alla fonte: lavanda e rosmarino, salvia ed origano, si attestano tenacemente fino ai declivi montani, il fico ed il mandorlo scortano il fiume generalmente fino al primo affluente freddo, che determina spesso il primo campo di battaglia fra spazio mediterraneo e territorio interno.
"Il fiume Guadalquivir ha la barba granata/I due fiumi di Granada pianto, l'uno, e sangue l'altro."
lunedì 3 febbraio 2014
I SALINAI DI TRAPANI
"Appuntato proceda, faccia entrare il prossimo e vediamo di sbrigarci, che qui si muore di caldo!"
"Dice faccia entrare il prossimo, maresciallo, ma qui sono in quindici, chi faccio entrare?" "Ma che ne so, Spatuzza, che ne so! Guarda, trovamene uno che parla italiano per favore, che dai primi tre non c'ho capito una minchia!".
"Giustizia Giovanni, ai vostri ordini." "Maresciallo Pepe, prego si sieda. Allora, Giustizia Giovanni, nato a..." "Trapani il 13 aprile 1920"
"Allora vediamo se finalmente riusciamo a capire cos'è successo alla salina tre giorni fa, il 30 aprile..."
"Il 29, maresciallo, è cominciato tutto il 29" "Il 29? Vabbè il 29, questa è nuova, ma procediamo. Per quale diavolo di motivo Vasco Cirò s'è messo a sparare dal mulino?"
"Mah, guardi, Cirò è il mulinaro migliore di tutta la salina, mulinaro il padre, mulinaro il nonno, ma evidentemente tre generazioni di salsedine ne hanno fatto uscire uno un pò bacato di testa, e quindi niente, voleva salpare col mulino." "Voleva salpare col mulino? Ma come voleva salpare?" "Salpare si, non si dice così in italiano? Quello che fanno le barche dai porti, salpare!" "Voleva salpare col mulino, benissimo! E' tutta la mattina che ascolto testimoni, e solo ora esce fuori che questo pensava che il mulino fosse una nave! Non ci posso credere! Senta, lei che parla in una lingua compresibile, mi faccia capire questa storia, perchè qui non ci si capisce niente".
"Ah, ma io la storia gliela racconto, però l'avverto, a me in salina mi chiamano "libbirtati di parrata", libertà di parola, perchè parlo molto. In salina parlo solo io, gli altri stanno tutti zitti: in quindic'anni che sto lì di alcuni non ho mai neanche sentito la voce, non parlano mai; pensi che una volta che mi sono rotto un piede, sono stato a casa un mese ed un mio collega s'è scordato l'italiano!" "Guardi a questo punto la giornata è rovinata, maledetto caldo e maledetto me che mi sono fatto spedire in Sicilia!"
giovedì 23 gennaio 2014
IL KIBBEH DI ALEPPO
Aleppo, Safar 579 dell'egira-Giugno 1183
Lo spettacolo che si presentò agli occhi di Fawziya, appena varcata la porta di casa, le fece capire in un istante che quella sera avrebbe preparato dei kibbeh. Tutta la città era in strada, e sembrava che ogni uomo, donna, bambino o somaro, dalle campagne circostanti, fosse confluito ad Aleppo per festeggiare l'ingresso in città delle insegne del "Grande sovrano vittorioso", Salah al-Din. Sarebbe stato sicuramente giorno di kibbeh, tutto adesso stava nel farsi largo fino all'accesso del mercato, presso la grande porta in pietra che segna l'inizio della strada per Antiochia. L'antica carreggiata che dalla porta si dirama verso est, fino alla cittadella fortificata, ed i vicoli adiacenti, si erano, negli anni, trasformati in un labirinto pregno e pulsante di umanità assortita. Il suq era stato eletto a luogo privilegiato per la chiacchiera ed il commercio, per sfamarsi nelle botteghe che l'animavano, e per risolvere, con veloci fendenti di coltello, le mille e una controversie politiche e religiose che interessavano la città, come nella tradizione della potente setta degli Assassini, che in questi vicoli agiva e tramava.
mercoledì 4 dicembre 2013
IL TIMO
Tolosa, 1630. La città è in ginocchio. Dove non è arrivata la ferocia delle truppe di devoti cattolici del cardinale Armand-Jean du Plessi de Richelieu, accorsi per stroncare l’ennesima ribellione ugonotta della Linguadoca, è arrivata la peste che queste hanno generosamente importato da Parigi.
Quattro uomini sono arrestati con l’accusa di aver trafugato, nelle case di malati e defunti, ricchezze e beni dei quali, probabilmente, né i moribondi né i trapassati, avrebbero avuto bisogno nel Regno dei Cieli.
I tribunali, si può immaginare, non andavano proprio sul leggero per punire reati contro il patrimonio e atti di sciacallaggio, e solo quando la forca già pendeva sul patibolo, un giudice, forse saggio, ma sicuramente curioso, volle interpellare i quattro prigionieri su come potessero apparire così in buona salute e senza alcun sintomo di contagio dopo aver così assiduamente frequentato case infette e frugato fra gli oggetti dei moribondi. I quattro ladri negoziarono la preziosa informazione, ed ottennero la grazia se l’avessero rivelata: spiegarono che il loro stratagemma consisteva nel cospargersi i polsi e le tempie con un aceto aromatico, il cui ingrediente principale era proprio il timo, combinato con rosmarino, aglio, salvia e lavanda.
LA BOUILLABAISSE
Et quand ça bouille tu baisse, al primo incresparsi della superficie della broda la mano corre alla manopola del gas, un quarto di giro verso sinistra, la fiamma al minimo, un quarto d’ora ancora, ora c’è tempo per pensare, per pensarlo, questo piatto. Ora è di nuovo tempo per il Mistral, prima se n’era regalato un goccio solo all’aglio ed al porro che sudavano nel rame, ora se lo merita il cuoco. Uno alla pentola, uno al cuoco, s’era giurato, ma ora c’è tempo, uno, due, tre al cuoco. Ora il tempo c’è, alla finestra, gomiti sul davanzale, ora il tempo c’è, ma non c’è più il mare, da qui prima si vedeva tutto, ma i palazzi sono cresciuti mentre ci facevamo distrarre dalla televisione. Nell’edificio di fronte un altro come me mi guarda, sa anche lui cos’ha perso. Un fischio accecante, attiro la sua attenzione, lo invito a pranzo, qui in casa siamo tre, e la bouillabaisse si prepara solo per i numeri pari.
Marsiglia è distesa pancia sotto, con i piedi in Provenza ed il mento, poggiato sul dorso delle mani callose, volto verso il Mediterraneo. Il Vieux Port è racchiuso nella sua piccola baia, e quel che resta della casbah del Panier si sviluppa alla sua destra, vicoli stretti e maleodoranti che i nazisti poterono affrontare solo con i bulldozer, tanto era il disprezzo che le pareti salmastre trasudavano su di loro. Dalla mia finestra nel quartiere, intravedevo il porto vecchio, e bastava un cenno dalle barche per capire com’era andata la pesca. Alle spalle del porto si dirama, lunga e ordinata la Canabiére, dove vivono i signori, quelli senza calli sulle mani, e con la pelle liscia; sono l’esofago di Marsiglia, per nostra fortuna ghiotti solo di denaro e di delicati pesci bianchi, puliti, spinati. Lasciano sul fondo delle nostre reti la vera ricchezza del mare: lo scorfano, le triglie di scoglio, il grongo, le tracine… E’ con questo bottino che noi si torna a casa e si prepara la bouillabaisse, coscienti, ancora una volta, di aver beffato il padrone.
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