Tolosa, 1630. La città è in ginocchio. Dove non è arrivata la ferocia delle truppe di devoti cattolici del cardinale Armand-Jean du Plessi de Richelieu, accorsi per stroncare l’ennesima ribellione ugonotta della Linguadoca, è arrivata la peste che queste hanno generosamente importato da Parigi.
Quattro uomini sono arrestati con l’accusa di aver trafugato, nelle case di malati e defunti, ricchezze e beni dei quali, probabilmente, né i moribondi né i trapassati, avrebbero avuto bisogno nel Regno dei Cieli.
I tribunali, si può immaginare, non andavano proprio sul leggero per punire reati contro il patrimonio e atti di sciacallaggio, e solo quando la forca già pendeva sul patibolo, un giudice, forse saggio, ma sicuramente curioso, volle interpellare i quattro prigionieri su come potessero apparire così in buona salute e senza alcun sintomo di contagio dopo aver così assiduamente frequentato case infette e frugato fra gli oggetti dei moribondi. I quattro ladri negoziarono la preziosa informazione, ed ottennero la grazia se l’avessero rivelata: spiegarono che il loro stratagemma consisteva nel cospargersi i polsi e le tempie con un aceto aromatico, il cui ingrediente principale era proprio il timo, combinato con rosmarino, aglio, salvia e lavanda.