mercoledì 4 dicembre 2013

LA BOUILLABAISSE

Marseille Quartier du Panier

Et quand ça bouille tu baisse, al primo incresparsi della superficie della broda la mano corre alla manopola del gas, un quarto di giro verso sinistra, la fiamma al minimo, un quarto d’ora ancora, ora c’è tempo per pensare, per pensarlo, questo piatto. Ora è di nuovo tempo per il Mistral, prima se n’era regalato un goccio solo all’aglio ed al porro che sudavano nel rame, ora se lo merita il cuoco. Uno alla pentola, uno al cuoco, s’era giurato, ma ora c’è tempo, uno, due, tre al cuoco. Ora il tempo c’è, alla finestra, gomiti sul davanzale, ora il tempo c’è, ma non c’è più il mare, da qui prima si vedeva tutto, ma i palazzi sono cresciuti mentre ci facevamo distrarre dalla televisione. Nell’edificio di fronte un altro come me mi guarda, sa anche lui cos’ha perso. Un fischio accecante, attiro la sua attenzione, lo invito a pranzo, qui in casa siamo tre, e la bouillabaisse si prepara solo per i numeri pari.

 Marsiglia è distesa pancia sotto, con i piedi in Provenza ed il mento, poggiato sul dorso delle mani callose, volto verso il Mediterraneo. Il Vieux Port è racchiuso nella sua piccola baia, e quel che resta della casbah del Panier si sviluppa alla sua destra, vicoli stretti e maleodoranti che i nazisti poterono affrontare solo con i bulldozer, tanto era il disprezzo che le pareti salmastre trasudavano su di loro. Dalla mia finestra nel quartiere, intravedevo il porto vecchio, e bastava un cenno dalle barche per capire com’era andata la pesca. Alle spalle del porto si dirama, lunga e ordinata la Canabiére, dove vivono i signori, quelli senza calli sulle mani, e con la pelle liscia; sono l’esofago di Marsiglia, per nostra fortuna ghiotti solo di denaro e di delicati pesci bianchi, puliti, spinati. Lasciano sul fondo delle nostre reti la vera ricchezza del mare: lo scorfano, le triglie di scoglio, il grongo, le tracine… E’ con questo bottino che noi si torna a casa e si prepara la bouillabaisse, coscienti, ancora una volta, di aver beffato il padrone.


 Io sono il Francese, mi chiamano così da quando ho cominciato a correre lungo i moli, il Francese. Incarno, mio malgrado, il paradosso di Marsiglia: una città in cui tutti sono di qui e contemporaneamente di altrove. Sarebbe sciocco ed imprudente, da queste parti, entrare in un bar e chiamare qualcuno “Ehi Arabo!”, “Tu, corso!” o “Paisà!”, perché si girerebbe la metà degli avventori. Se mai ti capitasse di vedermi procedere veloce sulla diga di Sainte-Marie, che conduce al faro, e mi apostrofassi “Francese, dove vai di bello?”, saprei che stai parlando con me. Sono l’ultimo francese, dicono, anche se io non mi sento tale. Parigi, la Francia, guardano all’Europa, ed ogni volta che lo sguardo gli volge a sud, sul nostro mare, vedono solo frontiere e confini. Noi vediamo il Mediterraneo. Sarei marsigliese, accidenti, se solo ne esistesse uno. E così è la bouillabaisse, tanti dicono di saperla preparare alla vera ed unica maniera tradizionale, ed altrettante sono le varietà che ne esistono. Ogni cosa è figlia del suo tempo e del suo luogo: qui a Marsiglia si sta con la schiena alla terra e la fronte al mare. Il lungo viale della Canabière sorge ora, elegante, sul solco millenario che i carri hanno inciso per trasportare la canapa al porto vecchio, dove l’avremmo trasformata in reti e cordami. E’ questa l’unica cosa che abbiamo supplicato alla terra, insieme al legno per le imbarcazioni. Ci siamo spesso accontentati, nelle nostre cronache della fame, di una pietra di mare affogata in acqua calda, per donare ad un’insipida brodaglia un tocco di mineralità marina. Solo in seguito abbiamo cominciato a far nostri i prodotti che arrivavano dalla terra e dalle navi. E’ lì che nasce la bouillabaisse.

 Questa che si sta raccontando è la storia di tre personaggi che sono nati lontano, hanno viaggiato a lungo e, come tanti altri qui a Marsiglia hanno trovato una casa ed una famiglia. Nella mia pentola di rame si incontrano e rinnovano l’amicizia l’aglio asiatico, acclimatatosi allegro in Provenza, lo zafferano, proveniente forse dagli antichi mercati della Persia, e l’anice, così diffuso sulle due sponde del Mediterraneo che il liquore che ne ricaviamo qui l’abbiamo dovuto chiamare con lo stesso nome del vento che spazza le nostre coste.

 Amo preparare la bouillabaisse. L’aglio si schiaccia con la lama del coltello, guai ad affettarlo, ci si avvicinano e si annusano gli stigmi di zafferano, dalla dispensa sbuca il Mistral, “Sarà ancora buono? È aperto da mesi.” Sì, è ancora buono, molto. Del porro, pulito e privato dalle foglie esterne, affetto la parte bianca. Prendo, solennemente, la pentola di rame appesa al muro. La stessa da trent’anni. Trent’anni fa.

 “Schiaccia l’aglio” mi dice papà, lo affetto sottile, diligente, e mai tanta premura è stata punita così severamente. Lo butta. “Ricomincia, schiaccialo!”. Lo schiaccio con stizza, quasi spremendo fuori tutti i suoi succhi. “Papà, mettiamoci anche il basilico, o della menta, sono lì sul davanzale.” Mi risponde uno sguardo serio, come di fronte ad un sacrilegio. “Ma nonno ce lo mette sempre, lui la fa così la zuppa di pesce!”. Capisco subito l’errore, questa non è una zuppa di pesce, questa è la bouillabaisse.

 Mio padre. Pescatore, come me: lui capobarca con due dipendenti, io salariato su un peschereccio giapponese. Guardo i pesci nel secchio di plastica: qualche nasello, lische di sogliola, teste di grongo per il fumetto di pesce, insaporito anche da alloro e pepe; per il ragout di pesci (è questo che è una bouillabaisse) le trance del grongo, le tracine, qualche triglia di scoglio, e, soprattutto, scorfani, profumati e utili per agglutinare il fondo di cottura. Ecco, lo scorfano ha proprio lo stesso sguardo di mio padre se sapesse che uso anche il porro per il soffritto.

Fishes - Vieux Port - Marseille
 In piedi su uno sgabello cerco di affacciarmi nella pentola, dove l’aglio suda, solitario, nell’olio d’oliva. Il fumetto di pesce, con le teste, le lische e qualche pescetto piccolo, è pronto, e, una volta filtrato, papà lavora gli scarti di pesce con il passaverdura, faticosamente, combattendo tra ruggine, spine ed artrite, per ottenere un purè che non mi è permesso assaggiare, pena un ceffone.

 L’aglio ed il porro stufano lentamente in pentola, ora è il momento del Mistral, su la fiamma, un bicchierino al soffritto ed uno al cuoco. Uno solo, giuro. Sfumato l’alcol vanno dentro una decina di pomodori privati della pelle e dei semi, la polpa di pesce ottenuta col fumetto e tutto il resto del pescato disponibile, tagliando a tranci i pesci più grandi. “Io, io, voglio metterlo io lo zafferano!” Due, quattro, sei mestolate di fumetto frizionano sul verde caldo del rame, e con l’attenzione di un orafo puntiglioso disciolgo i rossi stigmi di zafferano, un cucchiaio scarso, nel brodo. Ora si osserva, un po’ mi annoio, e guardo la serietà con cui mio padre attende il ritorno del bollore, con la mano sulla manopola del gas.

 Mia moglie e mio figlio ridono quando mi vedono, attento, di fronte alla bouillabaisse, con la mano sulla manopola del gas, come un pistolero a duello. Ho sempre fatto così, è quasi scaramanzia. Alla prima bolla, giù il fuoco, ed ho un quarto d’ora per pensare e valutare le variabili. I pesci reggeranno la cottura? Si sfalderanno? Poco male, tanto li volevo servire a parte, e se ci sarà qualche spina filtro tutto e sarà perfetto.

 Ho bisogno di questo quarto d’ora che mi regala la bouillabaisse. E’ il tempo di osservare la città dalla finestra, di pensare a mille anni fa, a trenta, ed a domani. Di pensare a tutti i sacrilegi che ho commesso nel prepararla, assolto con formula piena dal gusto (“Ci va il porro, non ci va?”) e dalla storia. Prima la bouillabaisse non si preparava per meno di otto o dieci persone, ma bastava una famiglia per raggiungere il numero minimo. Ora, da solo, ad una finestra da cui vedevo il mare, penso a cosa significa essere di qui ed amare questi piatti. Incrocio lo sguardo del mio vicino, lo invito, mi raggiunge e capisco che l’unico senso della cucina è la porta aperta.

1 commento: