giovedì 20 febbraio 2014

LE TORTAS DE ACEITE DI GARCIA LORCA

 

"Il fiume Guadalquivir scorre fra aranci e ulivi/I due fiumi di Granada scendono dalla neve al grano."
Il Mediterraneo spessa penetra nella terra, risale i fiumi imponendo e caratterizzando coi suoi valori lo spazio interno del continente. I suoi odori risalgono, lungo e contro la corrente, fin quasi ai piedi delle montagne, e le piante che lo accompagnano palesano, in questi contesti, le loro caratteristiche e la loro origine. Piante trapiantate da altrove, come aranci e limoni, scompaiono presto, il cappero perde mano mano volume e forma, del mirto e del profumo del finocchio rimane a volte solo il ricordo; le erbe, invece, lo accompagnano fino alla fonte: lavanda e rosmarino, salvia ed origano, si attestano tenacemente fino ai declivi montani, il fico ed il mandorlo scortano il fiume generalmente fino al primo affluente freddo, che determina spesso il primo campo di battaglia fra spazio mediterraneo e territorio interno.
 "Il fiume Guadalquivir ha la barba granata/I due fiumi di Granada pianto, l'uno, e sangue l'altro."

 "Per le barche a vela ha un sentiero Siviglia/sull'acqua di Granada remano soltanto i sospiri."
Nato dalle montagne e fenduta la terra, anche il fiume impone al mare il suo spazio: presso le foci, ed attraverso la loro conformazione, questo esprime il proprio carattere, a volte orgoglioso e deteminato, altre timido e restio, ed il rapporto del territorio con il mare. Il Guadalquivir, nonostante sfoci nell'Atlantico, appena oltre le Colonne d'Ercole, è considerato un fiume mediterraneo, sia per il suo patrimonio naturale che per il suo fiero rapporto con la vastità salina. Il Guadalquivir permette sì al Mediterraneo di espandere il suo spazio all'interno del continente, ma impone alla costa le caratteristiche fluviali, canneti, risaie, paludi e vaste maremme (marismas in spagnolo). L'ambiguità del rapporto fra il mare e questa terra ed il loro reciproco compenetrarsi senza che nessuno prevalga, possono spiegare l'anomalia linguistica castillana che attribuisce al mare genere sia femminile che maschile. "El mar" nell'entroterra, dove la sua concezione spesso si limita a quella di fattore economico o frontiera; "La mar", seppur più arcaico, laddove la tragicità mediterranea penetra e trasporta con sé i suoi profumi e le sue chitarre.
"Guadalquivir, alta torre e vento negli aranceti/Dauro e Genil, piccole torri morte sugli stagni."

"Ahi amore che andò via col vento/chi dirà che l'acqua porta un fuoco fatto di grida?"
L'ulivo, più di ogni altra pianta mediterranea, caratterizza la penetrazione del mare nello spazio interno andaluso. L'oliva qui non è solo frutto, e non è solo reliquia. Non adempie esclusivamente alla sua funzione alimentare, come non è solo espressione, in questa terra devota, del culto del suo ramoscello nel becco di una colomba, o della preghiera di Cristo nell'orto del Getsemani. L'ulivo rispecchia, oltre ed insieme a questi due fattori, l'irriducibilità del carattere andaluso: una terra dura ed arida, che produce comunque un frutto dal succo denso e grasso, raccolto dopo raccolto, nonostante l'avarizia del suolo e le siccità epocali. L'olio come simbolo degli sforzi umani e divini congiunti, votato alla più alta sacralità, espressione, nella ritualità dell'estrema unzione, del grasso che accompagna alla vita eterna.
"Ahi amore che andò via e non tornò!/Porta fiori d'arancio, porta olive ai tuoi mari, Andalusia!"

"Gli arcieri neri a Siviglia si avvicinano/Guadalquivir aperto/Larghi cappelli grigi, lunghe cappe morbide/Ahi, Guadalquivir!
Popoli strani da queste parti: sole, latifondo e pregiudizi hanno prodotto genti dall'oscura pena e dai coltelli luccicanti; chitarre incrostate di sabbia e salsedine, qui, come in nessun luogo, producono i lamenti degli ultimi romantici d'Europa. Gente sinistra/gente col cuore nella testa segue il feretro delle ultime espressioni della cultura contadina, che, in queste zone, ha prodotto fiero banditismo, inattese riforme agrarie ed una tradizione gastronomica che ha significato, e continua a farlo, una resistenza irriducibile all'annientamento culturale. Espressione lampante di questo patrimonio sono le tortas de aceite, friabili ostie di olio e farina, che dalla macina, nella quale condividono il destino, al palato, dimostrano l'inseparabilità, sul Mediterraneo delle olive e del frumento, del grasso e del pane.
"Vengono dai lontani paesi della pena/Guadalquivir aperto/E vanno in un labirinto. Amore critallo e pietra."

"I cavalli sono neri. Le ferrature sono nere/Sui mantelli risplendono macchie d'inchiostro e cera/...Passano, se vogliono passare e nascondono nella testa/una vaga astronomia di pistole inconcrete."
E' con le oscure forze della storia che imperversano sulle strade, ed il loro passo cadenzato che fa vibrare i vetri e tremare il cuore, che oggi si è deciso di resistere, per non lasciare che ciò che la terra ha prodotto e gli uomini tramandato vada perduto per sempre. Si preparano le tortas de aceite: in una ciotola si mischiano 600 grammi di farina con semi di finocchio e di anice, un cucchiaino di cannella ed un pizzico di sale; in una caraffa invece 2 centilitri di olio extravergine d'oliva, 3 di acqua tiepida, 6 cucchiai di zucchero di canna e 15 grammi di lievito secco. Si unisce lentamente il liquido, dopo un pò di riposo fisiologico per il lievito, alla fontana di farina e quando il composto comincia a legarsi si prosegue, brevemente, a lavorarlo con le mani. Una volta formato l'impasto, dividerlo in circa 24 palline, stenderle formando dei dischi e, dopo averle spennellate con albume e cosparse di zucchero di canne, infornarle a 230° per una decina di minuti. Le tortas de aceite erano una delizia da viaggio, coperto e mantenuto asciutto durava giorni, e ricordava, a briganti, bandoleros e partigiani, nascosti o esiliati sulla sierra, gli odori della pianura e del fiume, del focolare e della compagnia. Perché certi cibi hanno il profumo della nostalgia, ma altri, insieme, si trascinano anche il sapore della rivolta.
"La città, libera da paura, moltiplicava le sue porte/Quaranta guardie civili vi entrarono a saccheggiare./Gli orologi si fermarono/e il cognac delle botiglie si mascherò da novembre per non infondere sospetti."

"Oh, città dei gitani!Negli angoli, bandiere/La luna e la zucca con le amarene in conserva."
Questo breve testo è stato pensato per raccontare la storia di un territorio tormentato dalla geologia, di un'umanità afflitta da sempre dallo sfruttamento e dall'espropriazione terriera imposta dal latifondo, e, naturalmente, per conoscere ed immaginare un piatto, che è proprio sintesi di questi processi e delle forze che vi si oppongono. Ma vuole anche essere un omaggio a tutte quelle meravigliose espressioni della sensibilità irriducibile andalusa, come l'esperienza utopica (che vorrà dir mai?) del comune di Marinaleda, che ha sottratto alla gestione capitalistica dell'economia l'edilizia e l'agricoltura, e l'immaginifica poetica di Federico Garcìa Lorca, fucilato insieme ad un maestro elementare ed a due toreros anarchici ad un mese dal golpe franchista.
"Oh città dei gitani. Chi t'ha visto e non ti ricorda?/Città di dolore e muschio, con le torri di cannella."

1 commento:

  1. Bello ed intenso, soprattutto il finale! Aspettando il prossimo...

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