giovedì 23 gennaio 2014

IL KIBBEH DI ALEPPO

Aleppo Traditions Museum  

Aleppo, Safar 579 dell'egira-Giugno 1183

Lo spettacolo che si presentò agli occhi di Fawziya, appena varcata la porta di casa, le fece capire in un istante che quella sera avrebbe preparato dei kibbeh. Tutta la città era in strada, e sembrava che ogni uomo, donna, bambino o somaro, dalle campagne circostanti, fosse confluito ad Aleppo per festeggiare l'ingresso in città delle insegne del "Grande sovrano vittorioso", Salah al-Din. Sarebbe stato sicuramente giorno di kibbeh, tutto adesso stava nel farsi largo fino all'accesso del mercato, presso la grande porta in pietra che segna l'inizio della strada per Antiochia. L'antica carreggiata che dalla porta si dirama verso est, fino alla cittadella fortificata, ed i vicoli adiacenti, si erano, negli anni, trasformati in un labirinto pregno e pulsante di umanità assortita. Il suq era stato eletto a luogo privilegiato per la chiacchiera ed il commercio, per sfamarsi nelle botteghe che l'animavano, e per risolvere, con veloci fendenti di coltello, le mille e una controversie politiche e religiose che interessavano la città, come nella tradizione della potente setta degli Assassini, che in questi vicoli agiva e tramava.

Fawziya riuscì a farsi strada fino all'ingresso del suq, annunciato, già da varie traverse prima, dal tintinnio dei venditori di sharab, bevande fresche al concentrato di frutta, liquide o ghiacciate, che gli occidentali avrebbero imitato in forma di sciroppi o sorbetti. Varcata la magnifica porta, Fawziya deglutì, pensierosa, osservando la carreggiata, coperta da assi di legno per proteggere commercianti ed avventori dal sole e dalla pioggia, completamente invasa da centinaia di piccole botteghe che offrivano ai clienti ogni genere di mercanzia che il Signore Misericordioso aveva messo a disposizione dei primi uomini, e dei loro successori. Stoffe, pietre, ogni utensile immaginabile, e poi ancora datteri, frutta secca, pistacchi, animali interi esposti su enormi banconi di macelleria, come mattatoi all'aperto, e banchi colorati e profumati di spezie, che da questi si ergevano come piccole collinette polverose. A queste ultime era diretta Fawziya, e per raggiungerle dovette farsi largo tra la folla che circondava l'ingresso alla Grande Moschea, all'interno della quale notabili e rappresentanti delle corporazioni, come suo padre, commerciante di legno dal Libano, sedevano, gambe incrociate su vasti tappeti rossi, discutendo e deliberando, spiati da una miriade di occhi ed orecchie accalcati oltre il colonnato.

Arrivata presso il settore alimentare Fawziya notò con rammarico che non era stata affatto l'unica donna che aveva pensato di dedicarsi al suo piatto preferito, in quel giorno di festa; nonostante solo le persone piuttosto abbienti potevano permettersi una cucina domestica, mentre la maggior parte della popolazione comprava piatti pronti in strada, i banchi erano affollati da decine e decine di donne che litigavano su ogni prodotto. "Sarà una giornata faticosa!" pensò, "ma per preparare i miei kibbeh sono disposta a combattere con ogni altro musulmano in città, ed anche qualche cristiano se, Dio non voglia, ne fosse rimasto qualcuno!". Tra gomitate e spintoni riuscì a raggiungere il banco delle spezie, dove avrebbe trovato anche il bulghur. "Allora, concentriamoci!" decisa e forte cominciò a dichiarare tutta la lista degli ingredienti al povero commerciante, reso cianotico ed ansimante dalla violenta pressione dei clienti. "Allora, voglio una libbra e mezzo di bulghur, ben secco e macinato, poi...vediamo... abbondanti cumino, pepe nero, cannella... noce moscata... ed anche quei semi di coriandolo e... che altro? Ah, i chiodi di garofano, anche pochi. Puoi mettere tutto nello stesso sacca. Ah scusami, anche pinoli e mandorle!".

Riuscita dalla battaglia sulle spezie, era adesso la volta di conquistarsi tre libbre di carne d'agnello macinata, dalla spalla, cosa che risultò relativamente semplice, e, successivamente l'unica verdura che le serviva per l'impasto dei kibbeh: delle piccole cipolle rossastre, dolci e delicate, che provenivano dalla meravigliosa città costiera di Ascalona, in quegli anni ancora in mano ai sanguinari Franchi, che sembravano adorarle, e da sole sarebbero valse motivo di occupazione. La trattativa con l'ortolano fu serrata, poichè questi voleva tenere per sè la prelibatezza, ma Fawziya la risolse con preghiere e suppliche, alternate a minacce di castrazione.

La strada di ritorno era ormai più libera, sia per la sopraggiunta chiamata alla preghiera del mezzogiorno che per l'insostenibile calura che era discesa sulla città; in casa, ritrovando un pò di fresco, si adoperò immediatamente a dispiegare sul piano della cucina tutti gli ingredienti per la preparazione, illuminata solo da un sottile fascio di luce che si stagliava sul tavolo.

Aleppo, Dhul-hijja 1346 dell'egira-Giugno 1928

Dalle persiane appena accostate, nella canicola pomeridiana, un lembo di sole investiva il bancone della cucina, proseguiva sul grembiule da lavoro di Nadira, e terminava solcandole il viso, dividendolo precisamente all'altezza del naso. La città, oltre le finestre, era silenziosa, o forse sarebbe più opportuno definirla silenziata.

Era già intercorso un anno da quando le strade si erano gonfiate ed erano esplose per la grande rivolta siriana contro l'occupazione francese. "Noi veniamo come i discendenti degli antichi crociati", aveva affermato il comandante delle truppe francesi che, dopo aver tranciato la Grande Siria in quattro stati diversi, avevano represso nel sangue, con l'ausilio di truppe curde ed armene, il sollevamento popolare, ed avevano imposto il governo di alti commissari e funzionari francesi.  Nadira lavorava come cuoca per uno di questi, diligente ed attenta, dall'alba al tramonto, ogni giorno della settimana e dell'anno. "Stasera il padrone vuole i kibbeh, bene, avrà i kibbeh".

Rifuggendo il fastidioso fascio di luce cominciò a controllare gli ingredienti, disponendoli, con ordine, sul piano, e dividendoli per le due preparazioni necessarie: per l'impasto mezzo chilo di bulghur, reidratato con vari cucchiai d'acqua, aggiunti a cadenza di cinque minuti fino a che non risultasse morbido, mezzo chilo di spalla d'agnello macinata finissima ed un cucchiaio di spezie, quelle di sempre, antiche, che si sarebbero messo in uno stesso sacchetto già in un mercato medievale, pestate finemente e setacciate. Per la farcitura di queste polpette di carne speziate invece le sarebbe servito un altro mezzo chilo di agnello, sempre macinato, ma meno fino, ancora spezie, un pugno di pinoli o mandorle, e quattro o cinque scalogni tritati fini. C'era tutto, decisamente. Ricontrollò di nuovo una o due volte la lista degli ingredienti: i francesi, ed il suo padrone in particolare non prendevano alla leggera il cibo, e pretendevano dai loro servitori lo stesso scrupolo minuzioso che ad essi serviva per comandarli.

Nel grosso mortaio di pietra prese a pestare, senza violenza, ma con forza, il bulghur, rinvenuto e poi ben scolato ed asciugato, con le spezie e la carne, fino ad ottenere una scura pasta che farà da involucro per il ripieno. I suoi pensieri, nell'osservare l'impasto, compatto ed omogeneo, erano gli stessi di sempre, di ogni singola volta che l'aveva preparato, sin da quando sua madre le aveva insegnato la ricetta. "E' abbastanza duro e compatto da reggere la cottura e non assorbire olio di frittura?", "Non sarà friabile mi auguro?". Pensare, immaginare, anticipare gli eventi in cucina e perdersi nei piccoli problemi della gastronomia erano gli unici esercizi mentali che le permettevano di dimenticare, per un secondo, il carcere, le violenze e l'amore per la vita che a questi supplizi l'avevano condannata. Ma la mente compie sempre giri circolari, e torna sempre da dove è partita. Rasserenata dalla compattezza della preparazione, riconobbe nel suo colore, ocra venato di rosso, sabbia e sangue, quello della sua terra, e l'odio per chi l'aveva depredata tornava prepotente.

"Bisogna rimettersi a cucinare, pensiamo alla farcitura!", la padella sul fuoco veloce, olio d'oliva, e poi dentro la carne di agnello, irrorata di spezie, a metà rosolatura gli scalogni, tritati grossolanamente, ed infine la frutta secca, mandorle o pinoli, ma spesso ci metteva anche datteri, prugne secche o pistacchi tritati. L'attesa che il composto si freddasse era sempre dura ed interminabile per la sua mente, dove il soffio grigio dei suoi pensieri tornava a spingerla dove non avrebbe più voluto andare.
Adesso veniva il momento più critico ed importante della ricetta: assemblare i kibbeh. Stesa alla sottilezza di mezzo centimetro la sfoglia di bulghur ed agnello, doveva ora dividerla in polpette piuttosto grandi, e dopo averle modellate creando una tasca all'interno, farcirle con il ripieno, richiuderle, e lasciarle riposare al fresco per una mezz'ora.

Un'altra mezz'ora prima di poter evadere serenamente osservando l'olio sfrigolare appena le polpette, tre o quattro alla volta, vi venivano calate dentro. "Stasera il padrone vuole i kibbeh, bene, avrà i kibbeh, per lui ed i suoi ospiti solo il meglio. La salsa che li accompagnerà sarà di yogurt, erbe e, nella migliore tradizione aleppina, cianuro. Cucinare mi ha fatto evadere, ma non mi ha fatto dimenticare".

Aleppo, Rajab 1434 dell'egira-Giugno 2013

Dalla Cittadella medievale, antica sede di sovrani, sultani ed atabek aleppini, piovono, copiose, pallottole e colpi di mortaio. Ad ogni sibilo che attraversa l'aria, gli occhi di Ameena si chiudono, la schiena si inarca in avanti ed i pugni stringono l'aria. In cima alla collinetta fortificata sono asserragliati i cani di Bashar Al-Assad, il valoroso bastione della lotta contro il fondamentalismo islamico.

L'antica strada che collegava la cittadella con la Porta di Antiochia è da sette secoli il mercato coperto più grande al mondo, diramandosi ed inglobando, per oltre dodici chilometri, le vie e le piazze circostanti. In questi vicoli si sono da sempre incontrati arabi e cristiani di tutte le confessioni, ebrei, armeni, curdi, drusi, e quant'altro le onde del Mediterraneo, le vastità del Caucaso e le tragiche diaspore abbiano riversato nella città che più di tutte ha sintetizzato l'incontro tra il deserto, col suo universo nomade, ed il mare dai moltelici traffici e dalle mille lingue. Spesso questi ciottoli, che ora Ameena attraversa correndo, sono stati teatro di scontri, di agguati e di conflitti, ma mai come oggi la follia economica ha cavalcato la follia religiosa, fino ad armare, qui, la mano di un uomo contro suo fratello e la sua storia.

Ameena corre lungo le antiche gallerie del suq, superando botteghe millenarie, ora nere di fuliggine, e banchi divelti e ribaltati a formare improbabili barricate contro i mortai. In vari punti della volta del soffitto si aprono varchi e crateri, che lasciano balenare sul selciato fasci di luce ed espongono allo sguardo telescopico dei cecchini. La Grande Moschea, che delimita il lato meridionale del labirinto di vie che costituisce il suq, è distrutta, il suo minareto è un cumolo di macerie.

Ameena si ferma, ha raggiunto, due traverse più a sud, il meraviglioso palazzo Arghan, dove sono asserragliati i miliziani ribelli, padroni ora di un'edificio che nei secoli è stato prima ospedale e poi museo della scienza. "Non ci posso credere, Ameena, che Dio ti abbia in gloria, hai portato i kibbeh!?". Il fremito e lo stupore prodotto dall'impresa non si sarebbe manifestato con tutto quell'entusiasmo neanche se in quel momento fosse rotolata, nella sala, la testa mozzata di Assad stesso. "Ho preparato i kibbeh, sì! E che Dio abbia in gloria voi, fratelli!". "Spero proprio che tu non abbia aggiunto l'ingrediente segreto di tua nonna, quando lavorava per i francesi!?". Le risate, in certi luoghi ed in certi tempi, non sono mai prive di tristezza e dolore, e non durano mai così a lungo:"Ho cucinato per voi, amici, ed è stato bello. Ma non per rifuggire quest'evasione dalla vita che è la guerra, ma per ricordare, insieme a tutti voi, cos'è la vita, e, fatemelo dire, non c'è niente di meglio per celebrarla dei kibbeh! Vi voglio bene."






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